Macugnaga e il Monte Rosa

Tratto da Macugnaga e il Monte Rosa di Teresio Valsesia e Giuseppe Burgener – Anno 1968

Non è noto con certezza chi sfruttò per primo i giacimenti auriferi di Pestarena.
La tradizione vuole che i primi a ricavare l’oro dai filoni minerari dell’alta Valle Anzasca siano stati i Romani, o addirittura i Celti, gli stessi popoli cioè che “scoprirono” il Passo del Monte Moro.

 

Minatori di Quarant’anni fa al Colle Badile, nell’alta Val Quarazza.

 

Nel trattato di pace firmato nel 1291 ad Armenzello, l’attuale Saas Almagel, fra il Conte di Biandrate e gli abitanti delle valli si Saas, di S. Nicolao e dell’Anza si fa cenno agli homines argentarii, ossia ai minatori. Questi “uomini dell’argento”, che usavano cioè il mercurio per l’estrazione dell’oro, vengono descritti nei documenti dell’epoca come fior di ribaldi, tanto abili nell’estrarre il prezioso materiale quanto spregiudicati nel rapinarlo a viva forza. Pare oltre tutto che costoro non limitavano il loro campo d’azione alla Valle dell’Anza, ma si spingevano arditamente sino ad Alagna attraverso il Passo del Turlo.
Nel 1400 con l’avvento in valle del capitano di ventura Facino Cane ha inizio l’epoca dello sfruttamento razionale dei filoni auriferi. Facino Cane e i suoi discendenti possono essere considerati di fatto fra i migliori coltivatori delle miniere dove seppero mettere a frutto la loro eccellente abilità nel trattare il minerale a fuoco. Quest’arte li rese ben presto ricchi e dispotici. Dall’Ospizio del Morghen, tetra bicocca covo di sgherri e di malfattori al loro servizio, andavano terrorizzando con sanguinosi rastrellamenti tutta la valle. Questo sino al 1425 quando gli Anzaschini, stufi delle angherie, si sollevarono compatti, assalirono le rocche dei Cani, ne annientarono le guardie e si impossessarono di una grande quantità d’oro.
Scacciati i Cani, arrivarono in valle i Borromei, che ebbero la concessione delle miniere dal duca Gian Galeazzo Visconti. Pare comunque che la loro abilità in materia fosse piuttosto scarsa e di conseguenza l’attività assai meno proficua di quella dei loro predecessori.

 

L’ingresso della miniera come appariva nel 1968. Sul culmine è visibile il simbolo ligneo delle miniere che oggi è conservato presso il Museo Walser di Borca.

 

Alla fine del ‘700 i Borromei persero la signoria della valle, ma riuscirono a conservare la decima sulle miniere. Nel frattempo la concessione degli scavi fu assunta dal capitano Bartolomeo Testoni, un ingegnere minerario ante litteram dotato di un grande dinamismo e soprattutto di un buon “fiuto”. Egli coltivò con grande profitto a Campioli diversi filoni, che costituivano il Minerone, tanto che si arricchì in brevissimo tempo.
A ringraziamento dell’inattesa fortuna il Testoni donò alla chiesa parrocchiale di Macugnaga la grande cornice di legno scolpito e dorato con oro zecchino per il quadro dell’Adorazione dei Magi. Analoga donazione fu subito fatta da un altro capitano minatore, Pietro Giordano di Alagna, proprietario della miniera che si apriva al ponte della Guja nei pressi di Borca.
E’ di quegli anni il viaggio del De Saussure. “Le miniere principali – scrive il naturalista ginevrino – sono nelle vicinanze di un villaggio chiamato Pescerena. Quella del signor Testoni, nella quale sono disceso e che ho osservato con la più grande cura, si chiama Cava del Pozzone. La maggior parte dei filoni sono posti in verticale, ma essi non seguono nessuna direzione particolare, talvolta addirittura s’incrociano, ed è questo che si cerca; è in queste intersecazioni che si trovano i nidi o nodi, “gruppi”, dove sono le più grandi ricchezze. Si dice che il capitano Testoni vent’anni innanzi era completamente al verde e pieno di debiti e stava per essere costretto ad abbandonare la miniera, allorchè capitò addosso a uno di questi nidi da cui ricavò in ventidue giorni centoventisei libbre e dodici once, ossia centottantanove marchi d’oro puro.
Tuttavia è certo che il prodotto delle miniere è considerevolmente diminuito da qualche anno; e così va diminuendo giornalmente la brama di sfruttarle. Negli anni di maggior prosperità furono impiegati sino a mille operai nella sola miniera della giurisdizione di Macugnaga, e oggi se ne contano appena la metà; coloro che hanno miniere cercano di disfarsene e tutti i proprietari che ho incontrato, eccetto il Testoni, hanno proposto anche a me di comprarle. Sembra che queste miniere siano generalmente più ricche in superficie che all’interno della montagna e che si è estratto ormai tutto quello che c’era di meglio”.
Pochi anni dopo, sul finir del ‘700 è la volta dell’Amoretti che si dilunga in una interessante dissertazione. Secondo l’autore del famoso “Viaggio da Milano ai tre laghi” “Macugnaga vuolsi così detto quasi “mala cunicola”, da quei che v’erano condannati”. La resa della miniera si aggirava allora attorno ai dodici grammi per quintale, ma talvolta arrivava sino ai diciotto.
“E’ rimarchevole – narra sempre l’Amoretti – il modo con cui si scoprono i filoni metalliferi. Nelle notti oscure e procellose stanno gli abitatori di quei monti in luogo aperto e guardano se in alcun punto dell’opposto monte veggonsi fiammelle e scintille. Segnano quel luogo quanto più possono esattamente e al dì seguente vanno a visitarlo; e se vi trovano indizi di pirite scomposta (il che sovente avviene) concepiscono speranza di buon successo, e lo scavo imprendono”.
Le miniere erano allora parecchie e di varia importanza. Sotto Morghen c’erano oltre il “Minerone”, il “Cavone” simile ad un labirinto per talpe, la “Vena” scavata dal parroco Gatti di Ceppomorelli, la “Miniera dell’acquavite”, la “Valletta” e altre minori nella Piana dell’oro, in Val Quarazza, in Val Rossa e in Moriana.
Sopra il Morghen il Testoni trovò un’altra cuccagna nel “Pozzone”. Alcune di queste gallerie – opera assai ardita a quei tempi – raggiungevano in profondità il livello dell’Anza.
Le infiltrazioni d’acqua costituivano gli ostacoli maggiori che le opere idriche ancora molto embrionali e poco pratiche non riuscivano eliminare. Una galleria venne addirittura chiamata la “Peschiera” per via dell’acqua che spesso la intasava. Solo all’inizio di questo secolo fu costruita una galleria di scolo che partendo da Campioli risaliva la valle per oltre due Km., sino all’altezza di Pestarena, centoventi metri in verticale sotto il letto dell’Anza, con uno sbocco all’aria aperta.
L’intento di prosciugare la miniera venne pienamente raggiunto e con esso la possibilità di sfruttare i filoni a maggiore profondità, sino a quattrocento metri sotto il livello del suolo. Negli ultimi decenni dell’800 le miniere passarono nelle mani di una società inglese, ma con poca fortuna. Col nuovo secolo ritornarono ad una società italiana, Ceretti di Villadossola, che vi compì importanti opere traendovi un discreto utile. Furono scavate nuove gallerie e nuovi pozzi: le ramificazioni sotterranee superavano i cinquanta Km.

 

Una veduta di Pecetto quando non vi arrivava la strada carrozzabile.

 

Nel 1939 gli impianti passarono alla AMMI (Azienda Minerali Metallici italiani), società statale, che li sfruttò sino al 1961, anno delle chiusura definitiva. Negli anni intorno al ’40 la produzione raggiunse vertici elevatissimi grazie anche ad un notevole aumento della mano d’opera. La gestione dell’AMMI non fu però un modello di ordine e di sicurezza. La deficienza di igiene e l’assoluta mancanza delle più elementari misure profilattiche causarono un notevole aumento dei casi di silicosi con altissime percentuali di mortalità. La miniera divenne allora un’autentica “miniera di vedove e di orfani”.
L’oro non si trova allo stato nativo. I filoni di quarzo con tracce di pirite aurifera sono mescolati alle rocce scistose. L’oro è presente in proporzione di circa sette grammi per tonnellata. Sino al 1931 era estratto dal minerale col sistema dell’amalgamazione. In seguito venne adottato il metodo della cianurazione, ossia il materiale roccioso era sottoposto ad una fine macinazione, quindi a “flottazione” con la quale venivano separati i solfuri di ferro e di arsenico dalle rocce sterili. L’arseniopirite (che è quella che contiene l’oro) veniva in seguito trattata con cianuro di sodio e di potassio. Dal cianuro doppio derivatone si recuperava l’oro dopo averlo fatto precipitare con un’ultima reazione.
Un capitolo a parte merita la narrazione degli avvenimenti succedutisi a Pestarena nel periodo della guerra partigiana.
Dopo l’8 settembre 1943 la direzione della miniera rallentò con molta avvedutezza la produzione nell’incerto destino dell’oro, la cui quantità si aggirava allora attorno ai 50Kg. al mese.
Pare che il governo di Salò fosse riuscito a riservare a sé la produzione aurifera sottraendola alle mire del comando supremo tedesco. Nella confusione degli ultimi mesi del ’43 non fu difficile alla direzione nascondere il prezioso minerale in una galleria cieca protetta da due enormi porte di ferro. Per rendere più difficile l’accesso fu fatta crollare una parte della galleria antistante e all’ingresso fu innalzato uno spesso diaframma di cemento. L’oro celato nel cunicolo ammontava a circa duecentocinquanta chilogrammi mescolati a parecchi quintali di terriccio. L’inverno e la successiva primavera del ’44 trascorsero in un clima relativamente tranquillo. Nel frattempo si erano andate organizzando in valle alcune bande partigiane di formazione eterogenea che incominciarono a chiedere, sempre più frequentemente, alla direzione mineraria dei contributi, prima in denaro, poi in…bidoni di fango aurifero. Fra i minatori lavorava anche il tenente Giampiero Greco che comandava una formazione di partigiani autonomi.
“Tagliamacco” (questo era il suo nome di battaglia) onde evitare che il prezioso materiale fosse prelevato con la forza dai nazifascisti o da altri, si accordò tacitamente con la direzione della miniera nell’intento di recuperare l’oro dal nascondiglio e di trasportarlo, attraverso il Passo dei Mondelli, in Svizzera. Qui il minerale avrebbe dovuto essere depositato in una banca in attesa di venire restituito all’Italia alla fine del conflitto.
L’iniziativa fu studiata accuratamente e attuata nel volgere di pochi giorni. Dal 20 al 22 luglio la valle venne bloccata dai partigiani di Tagliamacco mentre un gruppo di operai fra i più fidati iniziava lo smantellamento delle opere protettive del deposito: trentasei ore di lavoro ininterrotto ed estenuante sotto la vigilanza inflessibile di alcuni capi.
Alfine l’oro fu portato alla luce e i bidoni trasportati subito verso il confine da oltre cento portatori con la scorta armata dei partigiani di Tagliamacco. Una fitta coltre di nebbia aveva favorito inaspettatamente l’operazione celandola a sguardi indiscreti.
I bidoni vennero nascosti in alcuni anfratti della montagna a poca distanza dal confine in attesa che si definissero le pratiche relative all’inoltro in terra elvetica.
Il comando tedesco di Domodossola , appena venuto a conoscenza del trafugamento, sospese l’invio dei viveri a tutto il complesso minerario. Ma gli avvenimenti incalzavano. Nel corso dell’estate l’Ossola veniva progressivamente liberata dalle forze partigiane che concludevano brillantemente l’operazione nel settembre occupando Domodossola.
Nel frattempo ebbero inizio in Anzasca infiltrazioni sempre più massicce di partigiani provenienti dalla vicina Valsesia. Tra le formazioni partigiane di Tagliamacco e le ultime arrivate si venne ben presto ad una lotta aperta. I garibaldini non tardarono ad avere il sopravvento, sia perché meglio organizzati, sia perché non temevano di usare metodi molto più decisi dei loro avversari. Così nel giro di poco tempo la valle Anzasca passò sotto il pieno controllo dei partigiani valsesiani. Tagliamacco venne accusato di tradimento e dovette abbandonare la valle aggregandosi ad altre formazioni nella bassa Ossola.
Alla caduta della “Repubblica dell’Ossola” l’oro di Pestarena ritornò d’attualità presso i comandi nazifascisti. Una squadra di militi con alcuni portatori salì al Passo dei Mondelli a riprendere i preziosi bidoni e li trasportò a valle. Sembra però che in parecchi di essi la polvere aurifera era stata sostituita nel frattempo con dei… sassi.
L’oro venne incamerato come preda di guerra dalle SS e trasportato nei pressi di Milano, ma infine nuovamente consegnato alla Repubblica di Salò poco prima della fine della guerra.
Nel dopoguerra la produzione riprese normalmente incontrando però quasi subito parecchie difficoltà, dovute soprattutto allo squilibrio fra i prezzi di costo e quelli di realizzo, anche perché la Banca d’Italia aveva completamente sospeso gli elevatissimi premi di produzione che erano stati devoluti nell’anteguerra secondo le direttive della politica autarchica del regime.
Nel tentativo di eliminare il disavanzo fu installato un nuovo impianto di trattamento e si potenziò la ricerca del minerale nel sottosuolo. Ma nonostante la completa ristrutturazione, l’economia del complesso minerario rimase sempre fortemente passiva soprattutto perché all’aumento del costo della mano d’opera non aveva fatto riscontro un adeguato aumento del prezzo dell’oro.
Così dopo alterne vicissitudini, nel 1961 la miniera venne definitivamente chiusa.

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