Dal XIV al XVII Secolo

La valle Anzasca vanta tradizioni plurisecolari per quanto riguarda l’attività mineraria connessa allo sfruttamento dei suoi giacimenti auriferi e la miniera di Pestarena, la più importante in termini di contenuto in oro e produzione di tutto il distretto, è stata in esercizio fino al 1961.

Sull’attività mineraria antica si hanno frammentarie notizie documentarie per le due aree della valle Anzasca dove sono presenti i principali sistemi di filoni auriferi, cioè il territorio circostante le frazioni inferiori di Macugnaga (Pestarena l.s. e val Quarazza) e i monti sopra San Carlo (Miniera dei Cani, val Bianca).

La prima testimonianza, seppur indiretta, dell’estrazione e lavorazione di metalli preziosi in valle ci viene dai documenti connessi al trattato di pace e concordia di Saas Almagell del 16 agosto 1291 stipulato tra i conti di Biandrate e gli abitanti delle valli di Saas e Anzasca, patto esteso anche agli «homines argentarii», dei quali venivano specificate le ragioni della loro presenza («faciunt officium argenterie de Valenzasca et morantur ad argentarias Valenzasche»).

Si comincia però a dar forma compiuta alle vicende minero-metallurgiche anzaschine solo dalla seconda metà del Seicento, secolo di cui va menzionata la relazione del notaio milanese Brusati, incaricato nel dicembre 1650 dal magistrato ordinario dello Stato di Milano di assumere informazioni su lavori minerari che si ritenevano praticati clandestinamente nel territorio di Macugnaga da parte dei fratelli Rabaglietti di Vanzone. Ricordiamo che da questa fonte si ricava la prima descrizione del trattamento del minerale aurifero impiegato in valle, realizzato mediante amalgamazione con mercurio nei cosidetti “molinetti piemontesi”, rudimentale sistema che per la sua praticità e basso costo anche nel Settecento verrà sempre preferito ad altri metodi metallurgici a maggior rendimento, ma assai più complessi e laboriosi.

Gli edifici di trattamento avevano, accanto a un molinone per ridurre di pezzatura il minerale, diversi molinetti di amalgamazione, collegati in serie tra loro per sfruttare la forza motrice portata da un’unica derivazione d’acqua; il numero dei molinetti poteva variare da un minimo di quattro, caso più frequente, fino a un massimo di dodici. In essi al minerale, dopo una macinazione prolungata, veniva aggiunto mercurio, che andava a legarsi all’oro a formare l’amalgama (“oro bianco”): questo era poi distillato a caldo separando l’oro e l’argento (“oro rosso”) e recuperando il mercurio.

La situazione che emerge dai documenti non molti anni dopo il sopra ricordato rapporto del notaio è un caotico intreccio di gruppi societari composti da diversi «minerali» del posto: ad essi spettava tanto la facoltà di coltivare specifiche aree concesse dal feudatario Borromeo, cui era dovuta la terza parte dell’oro ricavato, quanto la gestione dei relativi impianti di trattamento metallurgico. Per chi praticava l’attività mineraria senza avere adeguati capitali a disposizione la condivisione delle spese con altri soci era infatti l’unico modo per far fronte agli elevati costi di coltivazione, nella vana speranza di poter beneficiare prima o poi di un cospicuo prodotto in metallo prezioso; i frequenti passaggi di proprietà delle quote su cave e mulini dall’uno all’altro di questi piccoli ricercatori dimostrano come fosse invece assai più facile contrarre debiti che conseguire ricavi.

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